L’INTRODUZIONE DELL’EDITORE, ANTONIO R. LABANCA
L’antefatto “storico”
“Perché per fare il giornalista hai dovuto creare una nuova testata?”: è la domanda che mi fece mio fratello quando gli comunicai di aver registrato al Tribunale il mensile MILLE.
La risposta ancora non ce l’ho, e son passati 40 anni.
Non che avessi mancato di dare una risposta, allora: “Perché quello che intendo esprimere non avrebbe ospitalità nei giornali esistenti”, risposi a mio fratello.
Un’affermazione senz’altro velleitaria (col senno di poi) ma radicata su tre elementi:
primo elemento
l’esperienza di una ventina d’anni nell’associazionismo giovanile (nel 1975 ero entrato nell’equipe diocesana dell’Azione cattolica, un’esperienza che conduceva a vedere il mondo nella sua laicità proprio per la conoscenza dell’identità del cristiano aggiornata dal Concilio Vaticano II).
Da lì lo sguardo verso la costellazione dei giovani che nel 1984 stava trainando cultura e politica verso il futuro, pur se frenata da una restaurazione che si muoveva neanche nascosta. Entrai a far parte della prima Consulta giovanile del Comune di Torino;
secondo elemento
la conclusione del corso alla Scuola di giornalismo Carlo Chiavazza di Torino, unico centro formativo a questa professione che non chiedesse di essere già introdotto nell’ambiente per poter collaborare con una redazione vera. Nel 1983 avevo accumulato la quantità di compensi grazie all’attività svolta a Radio Proposta-Incontri e in alcuni periodici, e raggiunto così le condizioni per l’iscrizione all’Albo.
Una prerogativa che deriva da questo riconoscimento è la possibilità di diventare direttore di testata. Un vero abbaglio di onnipotenza per un ventottenne!
terzo elemento
essere stato in un certo modo spinto dai miei stessi amici ad andare oltre i mondi che frequentavo per incontrare realtà giovanili meno protette e più differenziate, sicuramente da esplorare e da raccontare.
È in quella fase che, impegnato con la Cooperativa Valdocco al Ferrante Aporti, conobbi Teresina e trovai finalmente la relazione che avrebbe segnato per sempre la mia vita affettiva, e non solo quella: lei fu sostenitrice convinta del progetto, allargò la cerchia dei collaboratori, mi diede la sicurezza senza la quale non avrei osato espormi in un ruolo pubblico come quello di fondatore di un’impresa editrice.
la nascita del nome MILLE
Il 13 giugno 1984, seduto alla scrivania dell’ufficio brevetti per invenzioni e marchi in cui lavoravo, feci una scelta fra i possibili nomi che avrebbero dovuto rappresentare la quantità e la varietà dei mondi giovanili: la testata si sarebbe chiamata MILLE. Accertai che non esistesse un’altra uguale e andai avanti.
Esclusa la possibilità di essere confusi con un’associazione politica, ormai in fase calante, che aveva un acronimo coincidente (Movimento per l’Italia Libera nella Libera Europa, risorta vent’anni dopo con nuovi soggetti), valutai che non ci saremmo comunque disturbati a vicenda; anzi né l’idea di libertà né quella di Europa erano distanti dall’ispirazione del mensile.
Ma il richiamo più diretto del nome era inevitabilmente ai giovani che corsero da Garibaldi per realizzare l’unità dell’Italia: un fatto straordinario di raduno di uno stuolo di gente disposti a spendersi fino in fondo per un ‘ideale, per superare le secche della prudenza eccessiva e dare un’accelerata alla realizzazione del progetto politico e culturale delineato all’orizzonte.
Riflusso e yuppismo stavano minando la capacità critica dei giovani, inghiottendoli nel mercato; la mangiatoia partitica e Milano da bere ubriacavano la politica e sfiancavano la volontà etica; la televisione lavacervelli stava centrando l’obiettivo di divenire il faro culturale delle masse.
Davide contro Golia: i “mille” giovani che avremmo voluto radunare in Piemonte mediante la carta stampata dovevano affrontare un gigante. Partivamo senza alcuna garanzia di successo, senza appoggi neanche sottobanco. Confidavamo nella bontà dell’idea di proporre nei tascapani dei giovani una rivista-simbolo, le pagine di cronaca del loro impegno per migliorare la società, di portare la fantasia nel quotidiano, di mettere a tema il bene comune nella diversità di appartenenze.
Due giorni prima a Padova era morto Enrico Berlinguer: dopo quella di Aldo Moro, la scomparsa del segretario del PCI avrebbe tolto gli argini all’involuzione della cultura popolare facendo diventare affarismo, verticismo, tifoseria la competizione per la gestione della cosa pubblica. Tenemmo fermo l’obiettivo qualche anno, poi dovemmo pensarci diversamente.
Non intendo raccontare della nostra piccola casa editrice altro che queste memorie riferite alle origini dell’esperienza. Piuttosto vorrei rilanciare la domanda: perché?
serve ancora che l’informazione si occupi dei giovani?
C’è davvero bisogno di un motore culturale che assuma il compito di dare voce al mondo giovanile, quello che un tempo si diceva più “impegnato”, oggi potremmo dire più consapevole delle sfide epocali che abbiamo di fronte? Ci sono cose distinte da quelle degli adulti e che devono conquistare uno spazio di attenzione maggiore nell’intera opinione pubblica?
Siamo una società anziana, noi Italiani. E i presenti sono in buona parte fra quelli che fanno pendere l’altalena verso la terza età. Siamo quelli che hanno beneficiato del boom economico, abbiamo consumato e sprecato le risorse, difendiamo diritti che paiono sottrarre risorse ai nuovi diritti. Sono queste alcune delle affermazioni che abbiamo iniziato a sentire qualche decennio fa, quando “quelli del Sessantotto” avevano occupato le sedie del potere ma non si erano comportati in maniera molto diversa da quelli che li avevano preceduti e che essi avevano contrastato.
Come si esprimono i giovani contemporanei? Con i social, ma con quale impatto che non sia quello dannoso del vortice di affermazioni melense, arrabbiate o inutili gridate ai quattro venti? C’è vera comunità nelle community? O perlomeno, che cosa genera in termini di impatto politico questo vociare, se non qualche emersione di fragili influencer, emotivi e poco ragionevoli, sostituibili al primo cambiamento di tendenza?
Quale spazio hanno nelle TV se non quelli di occupare i palchi della notorietà occasionale, o i confronti artificiosi per riconfermarsi in sentimenti superficiali e in pensieri consumati?
E la carta stampata? Essendo diventato duro il gioco, occorrono polemisti esperti, falsificatori seriali, composizioni aggressive pur di carezzare i sentiment di lettori che se ne facciano replicanti negli incontri informali e nelle chiacchiere a tempo perso, moltiplicatori del consenso verso che ha più da investire nella comunicazione pubblica.
I piani per i giovani prevedono molto, tutto ciò che compone il manuale delle “cose carine” ma nessuno vuole provocare il loro vero protagonismo che si riverberi nella società nel momento delle scelte. Le amministrazioni locali hanno rinunciato a mettere intorno a un tavolo le esperienze originarie delle diverse aggregazioni per affidarsi a professionisti dell’animazione che devono rispondere alle linee guida di progetti dettati dai centri economici e finanziari. I quali sono diventati gradualmente i soli arbitri delle decisioni sulla direzione da dare sul piano artistico, culturale, sociale.
Raccontando cosa hanno fatto prima di loro i giovani dell’ultimo secolo – e ancora prima, quando abbiamo potuto chiamarci Italiani per nazionalità e non solo per essere abitanti della penisola – abbiamo inteso proporre tre obiettivi:
primo obiettivo
mostrare che la decisione di mettersi in testa nella marcia verso il futuro è possibile, oltre che desiderabile e doverosa. Altri giovani, minoranze certo ma interpreti del sentire diffuso, sono stati capaci di voltare alcuni pezzi di mondo indicando l’assetto successivo.
Aggiungendo, per onestà, che questi protagonisti lasciano un’impronta più duratura quanto più mettono in gioco le loro sicurezze e – in casi estremi – la loro stesa vita, non necessariamente per un martirio di sangue ma per quello della quotidiana fatica di andare controcorrente;
secondo obierttivo
che è presente già oggi questo protagonismo giovanile: sul piano dell’affermazione dei diritti umani – di tutti i diritti umani – del rispetto dell’ambiente a tutto campo, intervenendo anche con durezza verso l’inerzia soprattutto di noi adulti a non riconvertire le modalità di produzione dell’energia, della mobilità personale, di qualificare le relazioni, del consumo di cibo, dell’uso del tempo lavorativo, del rapporto con gli altri esseri di questa Terra;
terzo obiettivo
che contrariamente a quanto hanno fatto le generazioni precedenti (che hanno individuato l’avversario culturale sul piano della distanza di età e del presunto conservatorismo dell’intero mondo adulto) si possono cercare alleanze inaspettate nella massa dei “diversamente giovani” non per lasciarsi condurre ma per farsi avvisare dei sogni inutili e dei finti amici, per acquisire più agevolmente le competenze e trovare le strategie necessarie utili per arrivare all’obiettivo.
Concludo rivelando che l’uscita del volume “I giovani che hanno fatto camminare la Storia” non è nata per la volontà di celebrare i primi quarant’anni di Edizioni MILLE ma per fomentare i desideri di chi oggi condivide il nostro modo di intendere la comunicazione e voglia entrare nel gioco.
Cerchiamo giovani autori per esprimere questo, ma anche chi avverta la vocazione a organizzare la produzione di libri nei diversi ruoli richiesti: quelli della progettazione, della gestione, della rappresentanza. Questo libro porta con sé l’invito a pensare alla nostra editrice davvero come una casa che ha già un suo spazio ma che lo stesso si può aprire ed allargare. Siamo pronti ad accogliere nuove disponibilità, a continuare a sostenere con la nostra storia l’impresa che voglia svilupparla secondo le opportunità del presente. Il libro come punto di arrivo e di partenza di un’azione culturale e mi permetto, anche politica nel senso nobile del termine.
Antonio R. Labanca